La Fondazione MAIMERI ospita al M.A.C. di Milano, la nuova mostra dell’artista milanese Simone Fugazzotto a cura di Luca Beatrice.
Artista poliedrico, nato a Milano nel 1983, che vive e lavora nel Queens, New York, Fugazzotto attraverso la pittura ha dato avvio ad uno studio antropologico sul suo unico e solo soggetto, la scimmia. Dalla tela al cemento, l’artista sceglie di osservare da vicino vizi e virtù dell’uomo, sostituendolo con il suo più vicino predecessore tra i Primati.
Con le più svariate tecniche propone da una prospettiva diversa atteggiamenti della società contemporanea che vengono affrontati al contempo con umorismo e serietà.
L’artista milanese con ironia graffiante, che gli deriva dalla sua esperienza nella Street Art, impasta temi scomodi d’inizio millennio in chiave pop, materializzando un universo fatto di muri, tele, plexiglass, sculture, video e ready-made. Nude o vestite, con uno smarthphone in mano, o un fucile, simboli e status, enfatizzati da colori sgargianti, per rappresentare le debolezze, le paure, gli azzardi dell’intera umanità. Le scimmie di Fugazzotto vogliono essere un avvertimento per la nostra società e un invito a ripensare ai valori autentici e alle vere necessità degli esseri umani.
“Queste scimmie sono distopia del futuro, un monito, gridato ad alta voce, da primate a primate, dall’orango noto come enunciato da Il Legislatore: ‘Guardati dalla bestia-uomo, poiché egli è l’artiglio del demonio’.”
(Luca Beatrice)
La Fondazione MAIMERI ospita al M.A.C. di Milano, la nuova mostra dell’artista milanese Simone Fugazzotto a cura di Luca Beatrice.
Artista poliedrico, nato a Milano nel 1983, che vive e lavora nel Queens, New York, Fugazzotto attraverso la pittura ha dato avvio ad uno studio antropologico sul suo unico e solo soggetto, la scimmia. Dalla tela al cemento, l’artista sceglie di osservare da vicino vizi e virtù dell’uomo, sostituendolo con il suo più vicino predecessore tra i Primati.
Con le più svariate tecniche propone da una prospettiva diversa atteggiamenti della società contemporanea che vengono affrontati al contempo con umorismo e serietà.
L’artista milanese con ironia graffiante, che gli deriva dalla sua esperienza nella Street Art, impasta temi scomodi d’inizio millennio in chiave pop, materializzando un universo fatto di muri, tele, plexiglass, sculture, video e ready-made. Nude o vestite, con uno smarthphone in mano, o un fucile, simboli e status, enfatizzati da colori sgargianti, per rappresentare le debolezze, le paure, gli azzardi dell’intera umanità. Le scimmie di Fugazzotto vogliono essere un avvertimento per la nostra società e un invito a ripensare ai valori autentici e alle vere necessità degli esseri umani.
“Queste scimmie sono distopia del futuro, un monito, gridato ad alta voce, da primate a primate, dall’orango noto come enunciato da Il Legislatore: ‘Guardati dalla bestia-uomo, poiché egli è l’artiglio del demonio’.”
(Luca Beatrice)
La Fondazione MAIMERI ospita al M.A.C. di Milano, la nuova mostra dell’artista milanese Simone Fugazzotto a cura di Luca Beatrice.
Artista poliedrico, nato a Milano nel 1983, che vive e lavora nel Queens, New York, Fugazzotto attraverso la pittura ha dato avvio ad uno studio antropologico sul suo unico e solo soggetto, la scimmia. Dalla tela al cemento, l’artista sceglie di osservare da vicino vizi e virtù dell’uomo, sostituendolo con il suo più vicino predecessore tra i Primati.
Con le più svariate tecniche propone da una prospettiva diversa atteggiamenti della società contemporanea che vengono affrontati al contempo con umorismo e serietà.
L’artista milanese con ironia graffiante, che gli deriva dalla sua esperienza nella Street Art, impasta temi scomodi d’inizio millennio in chiave pop, materializzando un universo fatto di muri, tele, plexiglass, sculture, video e ready-made. Nude o vestite, con uno smarthphone in mano, o un fucile, simboli e status, enfatizzati da colori sgargianti, per rappresentare le debolezze, le paure, gli azzardi dell’intera umanità. Le scimmie di Fugazzotto vogliono essere un avvertimento per la nostra società e un invito a ripensare ai valori autentici e alle vere necessità degli esseri umani.
“Queste scimmie sono distopia del futuro, un monito, gridato ad alta voce, da primate a primate, dall’orango noto come enunciato da Il Legislatore: ‘Guardati dalla bestia-uomo, poiché egli è l’artiglio del demonio’.”
(Luca Beatrice)
"Il termine Kustom Kulture, molto diffuso nella cultura americana, comincia a riscuotere grande interesse anche qui da noi in diversi linguaggi visivi contemporanei. L’espressione deriva dall’underground usa e si sviluppa a partire dagli anni ’50 ma trova negli ultimi decenni una crescita più articolata e complessa.
Custom (la lettera K è usata in nome di una licenza poetica) si riferisce al consumatore, ovvero colui che non si limita a utilizzare un oggetto così come viene prodotto ma vuole personalizzarlo con interventi minimi oppure stravolgerlo fino a renderlo irriconoscibile. In termini filosofici si può dire che è l’esatto contrario del mercato di massa e dell’omologazione: non più tutti uguali in nome di una moda o una tendenza, ma tutti diversi, unici, irripetibili, in nome invece di un irresistibile voler essere al di sopra delle mode.
Kustom Kulture si applica dunque alle motociclette –oggi le Special risultano molto più attraenti dei modelli di serie- alle automobili –con il fenomeno delle Hot Rod (letteralmente bielle roventi, vetture spesso storiche, notevolmente modificate e truccate nel motore e nella carrozzeria con le tipiche decorazioni flaming)- ma anche alle arti visive, in particolare alla pittura, e al design.
Sarà per la sua inesausta ricerca in questo campo –le sue biciclette sono quanto di più vicino alla cultura del do it yourself- da un po’ di tempo Antonio Colombo ha messo il naso sul fenomeno americano ripromettendosi di portare in Italia un assaggio di questa meravigliosa tendenza. Dice di aver voluto “mettere le mani nel mito americano e sporcarmele. That’s why. Io che guido male brutte automobili, non mi ubriaco mai, non ho tatuaggi e non so suonare nemmeno il mandolino, non la Stratocaster”. Capita così che “un bel giorno, ossessionato dalle immagini da una vita, ho voluto capire di più un mondo affascinante, eccessivo, volgare e mitico che risponde al nome di Hot Rod e Kustom Kulture. Il sogno americano che tutti o quasi sognano, vento tra capelli lunghi, velocità, musica ZZ Top e un po’ di Eagles, grafiche che forse riuscivo a fare anch’io sui banchi del Liceo Ginnasio statale Giosuè Carducci”.
Ecco come è nata l’idea di chiedere ad Anthony Ausgang, che aveva esposto qualche stagione fa in una personale da me curata, di raccogliere una serie di protagonisti e non di questo straordinario mondo. Autoincludendosi ovviamente nella scelta.
Insieme, noi tre, abbiamo condiviso discussioni, fascino e grandi sogni. Per una volta il mio ruolo abituale di curatore passa in secondo piano per svolgere, volentieri, quello di raccordo tra Milano e l’America. Passo la parola ad Ausgang che ci racconta chi sono alcuni tra i protagonisti della Kustome Kulture a stelle e strisce. Per un pubblico di fans, addicted, appassionati e curiosi."
Luca Beatrice
Sara Ray, Mother of the Road
"Il termine Kustom Kulture, molto diffuso nella cultura americana, comincia a riscuotere grande interesse anche qui da noi in diversi linguaggi visivi contemporanei. L’espressione deriva dall’underground usa e si sviluppa a partire dagli anni ’50 ma trova negli ultimi decenni una crescita più articolata e complessa.
Custom (la lettera K è usata in nome di una licenza poetica) si riferisce al consumatore, ovvero colui che non si limita a utilizzare un oggetto così come viene prodotto ma vuole personalizzarlo con interventi minimi oppure stravolgerlo fino a renderlo irriconoscibile. In termini filosofici si può dire che è l’esatto contrario del mercato di massa e dell’omologazione: non più tutti uguali in nome di una moda o una tendenza, ma tutti diversi, unici, irripetibili, in nome invece di un irresistibile voler essere al di sopra delle mode.
Kustom Kulture si applica dunque alle motociclette –oggi le Special risultano molto più attraenti dei modelli di serie- alle automobili –con il fenomeno delle Hot Rod (letteralmente bielle roventi, vetture spesso storiche, notevolmente modificate e truccate nel motore e nella carrozzeria con le tipiche decorazioni flaming)- ma anche alle arti visive, in particolare alla pittura, e al design.
Sarà per la sua inesausta ricerca in questo campo –le sue biciclette sono quanto di più vicino alla cultura del do it yourself- da un po’ di tempo Antonio Colombo ha messo il naso sul fenomeno americano ripromettendosi di portare in Italia un assaggio di questa meravigliosa tendenza. Dice di aver voluto “mettere le mani nel mito americano e sporcarmele. That’s why. Io che guido male brutte automobili, non mi ubriaco mai, non ho tatuaggi e non so suonare nemmeno il mandolino, non la Stratocaster”. Capita così che “un bel giorno, ossessionato dalle immagini da una vita, ho voluto capire di più un mondo affascinante, eccessivo, volgare e mitico che risponde al nome di Hot Rod e Kustom Kulture. Il sogno americano che tutti o quasi sognano, vento tra capelli lunghi, velocità, musica ZZ Top e un po’ di Eagles, grafiche che forse riuscivo a fare anch’io sui banchi del Liceo Ginnasio statale Giosuè Carducci”.
Ecco come è nata l’idea di chiedere ad Anthony Ausgang, che aveva esposto qualche stagione fa in una personale da me curata, di raccogliere una serie di protagonisti e non di questo straordinario mondo. Autoincludendosi ovviamente nella scelta.
Insieme, noi tre, abbiamo condiviso discussioni, fascino e grandi sogni. Per una volta il mio ruolo abituale di curatore passa in secondo piano per svolgere, volentieri, quello di raccordo tra Milano e l’America. Passo la parola ad Ausgang che ci racconta chi sono alcuni tra i protagonisti della Kustome Kulture a stelle e strisce. Per un pubblico di fans, addicted, appassionati e curiosi."
Luca Beatrice
Opera di Stevie Gee
A Palazzo Reale, fino al 16 febbraio 2014, è in esposizione la mostra “Pollock e gli irascibili“, che porta a Milano cinquanta capolavori di quegli artisti, appartenenti alla cosiddetta “scuola di New York”, che per la prima volta – tra la fine degli anni Quaranta e il decennio successivo – spostarono oltreoceano il baricentro dell’arte.
Il nome “irascibili” deriva dal celebre episodio di protesta nei confronti del Metropolitan Museum – nel 1950 – per l’esclusione dalla mostra sull’arte contemporanea americana, e peraltro ben sintetizza l’attitudine dei protagonisti dell’Espressionismo Astratto. La mostra ha come curatore – oltre a Carter Foster del museo Whitney di New York (da dove provengono le opere) – Luca Beatrice. A lui rivolgiamo alcune domande, per poter cogliere meglio alcuni aspetti di Pollock e degli “irascibili”.
Pollock svolge il caos sulla tela. Peraltro un caos apparentemente guidato da meccaniche divine, o se preferisci naturali, secondo alcuni studiosi. Secondo te il risultato presente sulle sue tele è casuale o causale?
È casuale e causale insieme, nel senso che lui organizza la tela come pendici per movimenti centripeti e centrifughi che si possono abbastanza facilmente individuare studiandone le composizioni, ma al contempo lascia evidentemente molto spazio al caso e alla capacità di meravigliarsi per delle soluzioni impreviste.
Da un altro punto di vista, il caos di Pollock va di pari passo con quello portato nello stesso periodo dal Rock and Roll. “Liberami dal vecchiume”, come cantava Chuck Berry… quali sono le origini sociali comuni a questi fenomeni?
Innanzitutto c’è una ragione biografica nella storia di Jackson Pollock, che sicuramente è stata una persona -ancor prima che un artista – che ha dovuto combattere per tutta la vita contro la psicosi e l’alcolismo, e comunque con una ribellione di fondo che gli era propria. Nel caso del Rock and Roll tutti quanti sono giovani, ribelli, creano una spaccatura con la musica delle generazioni precedenti e cercano di inventare qualche cosa di nuovo. Ma se c’è una cosa che accomuna queste due esperienze, pur in ambiti molto diversi, è il senso del ritmo. Il ritmo diventa a questo punto l’elemento per far muovere intere generazioni che trovano (quelli più colti) nella pittura di Pollock la profonda differenza rispetto anche soltanto all’informale astratto europeo. Così come il Rock and Roll da Elvis in poi, ma non c’è soltanto lui, si distacca totalmente rispetto alla musica delle generazioni precedenti.
Ciò che accomuna in gran parte gli artisti “irascibili”, spesso piuttosto diversi per stile, mi pare essere una sorta di furia esplosiva volta a raggiungere la totale libertà. È così? E che altro c’è?
Se c’è una cosa interessante dell’espressionismo astratto americano è proprio questo fatto di non essere un movimento. Quindi, di racchiudere una serie di esperienze molto diverse tra di loro, che vanno dal dripping pollockiano fino all’astrazione quasi minimalista, preminimalista di autori come Rothko o soprattutto di Barnett Newman che è il più teorico del gruppo, o come i Color Fields di Morris Louis, e via dicendo… Quindi è di fatto una pittura che già sente arrivare in maniera molto rapida il senso della crisi, il fallimento di una teoria della certezza che l’aveva un po’ invasa negli anni 50. La cosa curiosa è che tra la morte di Pollock, che avviene nel 1956, e invece Monochrome Malerei, la mostra che si tiene a Leverkusen in Germania – praticamente il trionfo della pittura monocroma -, passando per esperienze come quelle di Fontana per fare un esempio non americano, passano veramente pochi anni. Vuol dire che Pollock rappresenta il punto massimo ma anche la coda finale di un’esperienza che si era già in parte consumata negli anni 40.
Laddove ci sia l’assenza del tecnicismo e la totale astrazione, cosa distingue un’ opera sinceramente grande da un esercizio di stile, un manierismo, una posa, piuttosto che proprio un brutto quadro?
Intanto secondo me lo Zeitgeist, cioè lo spirito del tempo, perché è chiaro che l’informale – chiamiamolo informale se vogliamo parlare di Europa, o espressionismo astratto se vogliamo parlare di America – è stato a lungo considerato l’arte degli anni ’50, nella fattispecie in America l’arte per eccellenza di quel periodo. Però va detto che da una parte abbiamo un periodo storico che sente proprio come un’esigenza questa esplosione incontrollata di forme o di colori, questo andare verso la totale spaccatura dell’immagine realistica che a questo punto non è più centrale nell’esperienza della pittura ma anzi marginale e ormai quasi ininfluente. D’altro canto, invece, col passare degli anni ritengo che la pittura astratta, l’informale, l’informale segnico, l’informale gestuale, diventino un po’ delle scuole, delle grandi maniere. Che, spesso, più ci avviciniamo ai nostri tempi e più nascondono a mio avviso la quasi totale incapacità di realizzare un quadro. Quando le cose sono portate oltre il loro tempo massimo rischiano (questo in qualsiasi ambito evidentemente) di diventare maniera. Però se in Europa e in Italia in particolare queste forme ormai hanno lasciato il posto ad altre esperienze completamente diverse, lo stesso non si può dire dell’America dove tuttora ci sono generazioni di pittori che continuano a dipingere con questo tipo di stile e di linguaggio. Si vede che proprio è connaturato all’esperienza della cultura americana.
Terzo ed ultimo appuntamento a cura di Sisalpay (clicca qui e qui per i precedenti) al Museo del Novecento: dopo le visite guidate da altri ospiti d’eccezione quali Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, tocca ora a Luca Beatrice chiudere questo ciclo, illustrando – oltre alle nuove collezioni pervenute – un percorso lungo il museo tutto.
Come nelle precedenti occasioni, anche a lui abbiamo rivolto alcune domande.
Nelle precedenti occasioni, prima con Vittorio Sgarbi e poi con Philippe Daverio, ho avuto modo di chiedere un’opinione riguardo all’apporto dei privati – collezionisti come i Bertolini, che offrono il proprio patrimonio artistico, o società come SisalPay che supportano i costi di un’operazione come questa – nei confronti della realtà museale italiana. Il solo fatto che questo debba diventare argomento di discussione è indice di qualcosa, senza dubbio. E la prima cosa che può venire in mente è la scarsa presenza delle istituzioni…
Non sono d’accordo: in realtà, da questo punto di vista, l’Italia è assolutamente un paese di grandi istituzioni. Da noi la cultura è stata, fino a non molto tempo fa, totalmente a carico del pubblico, e quindi dei contribuenti. La sensibilità di avvicinare i privati a questa realtà è un fenomeno recente, simile per certi versi a quanto già in voga negli Stati Uniti, ma su cui da noi c’è certamente ancora molto da lavorare. Però non dimentichiamoci del fatto che se in Italia si può parlare di cultura è perchè esiste davvero una fortissima struttura pubblica, che è stata finora la forza del nostro paese. Vedremo se i privati saranno in grado di intervenire in modo massiccio con operazioni qualitativamente e quantitativamente di livello.
Questa iniziativa di SisalPay è molto positiva, perché l’azienda – come capita anche per alcune altre – si pone, in relazione all’arte, in maniera diversa e superiore rispetto alla figura del classico mecenate, permettendo così uno sviluppo dinamico della cultura che fino ad oggi era stato un po’ sacrificato.
Per un totale profano del 2015 credi sia più importante ed utile un primo approccio all’arte qui, al Museo del Novecento, o piuttosto in un’altra sede, al cospetto dei grandi Classici, magari rinascimentali?
Io penso che le occasioni possano essere molteplici. Non credo ci sia un posto giusto per andare a imparare l’arte. Certo è che se ci fosse da parte del pubblico una più spiccata abitudine a recarsi in luoghi come il Museo del Novecento, o come le grandi collezioni di arte contemporanea, si svilupperebbe probabilmente una mentalità meno conservatrice che non debba sempre rivolgersi al paracadute del Classico.
Ma per chi proprio non si è mai avvicinato all’arte, non è forse più semplice vedere un quadro agli Uffizi che non capire un’opera di Koons? Oppure, al contrario, l’arte contemporanea è più segno dei tempi, e quindi più vicina al nostro sentire?
Io penso che l’iPhone sia lo strumento elettronico più facile da utilizzare: non ha neanche il libretto di istruzioni. Invece il vecchio Nokia conteneva un libro di quaranta pagine, nonostante fosse un oggetto apparentemente più semplice.
Se tu potessi allestire un “Museo del Duemila”, porresti un concetto al centro del museo, ed eventualmente quale?
Io non credo che in questo momento ci sia bisogno di un museo del 2000. Credo però che ci sarebbe bisogno di dare più spazio all’arte contemporanea in collezioni del Novecento, perchè secondo me spesso si fermano un po’ troppo presto. Per quanto riguarda il fatto di creare altri musei direi di no, credo ce ne siano già abbastanza, almeno in Italia. E comunque a Roma abbiamo il MAXXI, che a tutti gli effetti è il museo del XXI secolo… anche se non mantiene la promessa, di fatto lo è.
L’EXPO finisce domani. Nel nome di EXPO sono state varate diverse iniziative, tra cui questa, che apparentemente hanno poco a che vedere con il concetto del “nutrire il pianeta”. Come pensi che questo evento possa relazionarsi con EXPO, o col suo slogan?
Mi pare che tutto si possa collegare soltanto ipoteticamente al fatto che Milano in questi ultimi sei mesi si sia dimostrata il cuore pulsante dell’Italia, il motore trainante di iniziative e di energia. Venire a Milano in questo momento permette di respirare una boccata di ossigeno rispetto ad altre città italiane magari un po’ più tradizionali. Credo che si sia messo in moto un meccanismo di ripartenza fondamentale del Paese nei cui confronti io sono estremamente fiducioso.
A trent’anni esatti dalla scomparsa del grande artista americano, Palazzo Ducale di Genova e 24 ORE Cultura dedicano una grande retrospettiva ad Andy Warhol (Pittsburgh, 6 agosto 1928 – New York, 22 febbraio 1987).
Curata da Luca Beatrice, prodotta e organizzata da Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura di Genova e da 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE, la mostra presenta circa 170 opere tra tele, prints, disegni, polaroid, sculture, oggetti, provenienti da collezioni private, musei e fondazioni pubbliche e private italiane e straniere.
Il percorso tematico si sviluppa intorno a sei linee conduttrici: le icone, i ritratti, i disegni, il suo importante rapporto con l’Italia, le polaroid, la comunicazione e la pubblicità.
Una mostra che copre l’intero arco dell’attività dell’artista più famoso e popolare del secolo scorso. Con lui si apre l’epoca dell’arte contemporanea, così come ancora la intendiamo oggi. Se nel calendario della musica pop c’è un ante e un post Beatles, l’unico fenomeno culturale e mediatico degli anni Sessanta in grado di rivaleggiare con Warhol, allo stesso modo in quello dell’arte dobbiamo parlare di un “Before Andy” e di un “After Andy”.
Soprattutto, Andy Warhol è stato capace di intuire e anticipare i profondi cambiamenti che la società contemporanea avrebbe attraversato a partire dall’era pop, da quando cioè l’opera d’arte ha cominciato a relazionarsi quotidianamente con la società dei massmedia, delle merci e del consumo. Nella Factory, a New York, non solo si producevano dipinti e serigrafie: si faceva cinema, musica rock, editoria, si attraversavano nuovi linguaggi sperimentali in una costante ricerca d’avanguardia. Anche nei confronti della televisione, il nuovo medium per eccellenza, Warhol manifestava una curiosità straordinaria e, probabilmente, se fosse vissuto nei nostri tempi, non avrebbe esitato a usare i social network e la comunicazione in rete.
In mostra alcuni straordinari disegni preparatori che anticipano dipinti famosi come il Dollaro o il Mao; le celeberrime icone di Marilyn, qui presente sia nella serigrafia del 1967 sia nella tela Four Marilyn, della Campbell Soup e delle Brillo Boxes; i ritratti di volti noti come Man Ray, Liza Minnelli, Mick Jagger, Joseph Beuys e di alcuni importanti personaggi italiani: Gianni Agnelli, Giorgio Armani e Sandro Chia. Un’intera sezione è poi dedicata alle polaroid, tanto importante e utilizzata da Andy Warhol per immortalare celebrities, amici, star e starlett e di cui si presentano oltre 90 pezzi.
Warhol Pop Society rimarrà a Palazzo Ducale fino al 26 febbraio 2017.
Alla Permanente di Milano fino al 18 febbraio c’è Microcities, di Matteo Procaccioli.
Curata da Luca Beatrice, la mostra è un’esposizione essenziale del lavoro del fotografo marchigiano, e rappresenta il risultato della più recente coniugazione dell’artista del soggetto tradizionale dei suoi scatti. Ovvero, il paesaggio urbano.
Il percorso di Procaccioli, partito inizialmente con una evidente ricerca di verticalità tramite un punto di ripresa dal basso di monumentali strutture architettoniche, passa ora ad un cambio di visuale, necessario per una riconsiderazione del rapporto tra le strutture e lo spazio: intere città – dagli stati uniti alla cina passando per il medioriente – vengono infatti riprese dall’alto, ponendo in evidenza la loro collocazione nel contesto delle forme naturali che le circondano, e facendosi in questo modo apparentemente piccole.
Un approccio che si rende assolutamente segno dei tempi, identificando il punto di vista dello spettatore con quello che è oggi sempre più familiare, in un’epoca in cui con google maps stiamo imparando a riconoscere le città non solo dallo skyline, ma anche dalla flatline; e in cui i droni, rendono sempre più comune la ripresa aerea.
Ma la caratteristica sostanziale delle fotografie di Procaccioli è quella di ritrarre le città, svuotate dall’ evidenza dell’uomo, e tramite questa renderne implicita la presenza. A tratti pare quasi di sorvolare, in silenzio come in una capsula spaziale, non già la Terra, ma Marte; e questo effetto di straniamento, al cospetto di quello che è invece il pianeta che abitiamo, porta a riflettere sul rapporto che effettivamente abbiamo con esso.
Matteo Procaccioli, Cairo (2012)
Alla Permanente di Milano fino al 18 febbraio c’è Microcities, di Matteo Procaccioli.
Curata da Luca Beatrice, la mostra è un’esposizione essenziale del lavoro del fotografo marchigiano, e rappresenta il risultato della più recente coniugazione dell’artista del soggetto tradizionale dei suoi scatti. Ovvero, il paesaggio urbano.
Il percorso di Procaccioli, partito inizialmente con una evidente ricerca di verticalità tramite un punto di ripresa dal basso di monumentali strutture architettoniche, passa ora ad un cambio di visuale, necessario per una riconsiderazione del rapporto tra le strutture e lo spazio: intere città – dagli stati uniti alla cina passando per il medioriente – vengono infatti riprese dall’alto, ponendo in evidenza la loro collocazione nel contesto delle forme naturali che le circondano, e facendosi in questo modo apparentemente piccole.
Un approccio che si rende assolutamente segno dei tempi, identificando il punto di vista dello spettatore con quello che è oggi sempre più familiare, in un’epoca in cui con google maps stiamo imparando a riconoscere le città non solo dallo skyline, ma anche dalla flatline; e in cui i droni, rendono sempre più comune la ripresa aerea.
Ma la caratteristica sostanziale delle fotografie di Procaccioli è quella di ritrarre le città, svuotate dall’ evidenza dell’uomo, e tramite questa renderne implicita la presenza. A tratti pare quasi di sorvolare, in silenzio come in una capsula spaziale, non già la Terra, ma Marte; e questo effetto di straniamento, al cospetto di quello che è invece il pianeta che abitiamo, porta a riflettere sul rapporto che effettivamente abbiamo con esso.
Matteo Procaccioli, Casablanca (2012)